giovedì 25 novembre 2010

25 novembre, Nimeño II s'est pendu


Nimeño si è appeso. Impiccato. Suicidato.
Era il 25 novembre del 1991 e Christian Montcouquiol la faceva finita, nel garage di casa.
Là fuori la moglie e i due figli, il fratello che l'aveva accompagnato dalle capeas della speranza fino a Las Ventas o Lima, e poi gli aficionados, i tori, la passione, la vita.
Là fuori anche la capa, che non poteva ormai maneggiare più: aveva ripreso tutto a muoversi, tutto, tranne il braccio sinistro.
Niente più muleta, niente più tori, niente più vita.
Trentasette anni.
Dev'essersi impiccato con il destro.

Il fratello, Alain, scriverà per lui pagine strazianti e bellissime: sono raccolte in due libri emozionanti e commoventi, che non ogni aficionado ma ogni uomo interessato agli altri uomini dovrebbe avere, leggere, raccontare.

Panolero aveva le corna come le portiere di un taxi, quel pomeriggio ad Arles.

Da queste parti se ne è parlato poco.
E non perché la storia di Nimeño II ci sia indifferente, anzi: abbiamo mandato a memoria interi capitoli dei libri del fratello, abbiamo visto e rivisto quei pochi video o documentari che lo hanno eternizzato su celluloide, abbiamo letto, cercato, conosciuto.
Se ne è parlato poco per una sorta di senso di inadeguatezza al confronto di una storia tragica e immensa, per l'incapacità di tradurre in parole adatte la sensazione di grandezza che la figura di Nimeño II trasmette, per sincera riverenza.

Eppure, in un qualche modo, Nimeño II l'abbiamo conosciuto anche noi.
Attraverso le lacrime.
Attraverso gli occhi rossi, che si fanno umidi, attraverso le labbra che si contorcono in una smorfia, per la voce che si rompe.
E quindi le lacrime, senza vergogna, terribilmente vere.
Un torero si può conoscere attraverso le lacrime di chi lo racconta, anche a vent'anni da Panolero.

Una domenica di Pasqua, la sera ad Arles, daube e vino rosso e due commensali che l'overbooking del ristorante costringe al nostro tavolo, o forse era il contrario, noi che ci sistemiamo sul loro, sì più probabile fosse così.
Bonsoir, merci, siete italiani, che bello due italiani alla feria. E via così, bello.
Finché lui, mentre lei con un gesto che è pieno di tutto posa la forchetta e semplicemente ascolta, ancora una volta, finché lui parla di Nimeño, di quel torero con la faccia gentile, dei tori che si digeriva, della verità che metteva in ogni cosa.
E in mezzo a tutta quella gente, che si accalca all'ingresso, assalta il bancone per un bicchiere di fino, parlava ad alta voce della corrida del pomeriggio, con le sevillanas di rito, in mezzo a tutto questo, davanti a noi che aveva conosciuto mezz'ora prima e con cui aveva bevuto non più di un paio di bicchieri, quell'uomo si mette a piangere.
A vent'anni da Panolero.

Un venerdì sera a Nimes, un bel venerdì caldo di settembre, al pomeriggio corrida di Miura, serata nelle bodegas.
Un incontro programmato da tempo, di quelli che si fanno tra aficionados che abitano a parecchie centinaia di chilometri di distanza, di quelli che arrivano dopo chiacchiere invernali via mail.
Birra al bancone. Calamares. Un'altra birra. Ancora. E poi calamares e birra.
I Miura al pomeriggio. Sempre i Miura. Nimeño II.
Me lo ricordo quando andava a esercitarsi al parchetto qua vicino, aveva una parola per tutti, un sorriso per i bambini, Nimeño era come noi, uno di noi, aficionado e solo poi torero.
Me lo ricordo Nimeño, mi ricordo i suoi occhi neri, mi ricordo la sua muleta davanti al muso di quei tori.
Un sorso di birra, la voce spezzata, le lacrime.
Senza nessun imbarazzo, lacrime, lacrime per Nimeño a vent'anni da Panolero.

Fino a ieri sera, quando per caso ci siamo messi davanti a un video sui tori, ché la nebbia fuori dalla finestra invitava ad una serata casalinga.
Un documentario di un'oretta scritto su testi di Jacques Durand, che è come dire una pellicola sul calcio costruita sugli articoli di Brera.
Intervistano un appassionato, il quale con orgoglio mostra la sua collezione di biglietti di corrida.
Ora, è normale immaginarsi che quel signore fosse stato avvisato, e che magari avesse concordato cosa dire, come dirlo, di cosa parlare.
Eppure davanti alla telecamera quel signore, un signore dalla faccia simpatica, una sessantina d'anni, baffi e capelli ormai più bianchi che neri, prende l'iniziativa, recupera dall'armadio una bella scatola di latta e mostra compiaciuto la sua preziosa serie di biglietti delle corride a cui ha assistito in quarant'anni di passione: e poi decide autonomamente di tirare fuori il pezzo più prezioso, corrida del 14 maggio '89, mano a mano tra Victor Mendes e Nimeño II, tori di Guardiola.
La camera stringe sul biglietto, la voce di quel signore ci racconta quella corrida storica, epica, che un'incidente a Mendes trasforma in un solo contro sei di Christian, il quale non abdica, combatte. La camera è ancora sul biglietto ma il racconto si fa meno sicuro, le parole inciampano, balbettano.
Si torna al primo piano, gli occhi sono rossi e stanno piangendo lacrime.
Per Nimeno II, che non c'è più.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie.
D.