venerdì 31 dicembre 2010

Ogni 31 dicembre, a mezzanotte







Nella notte tra il 29 e il 30 agosto 1985 la Guardia Civil cercava il torero José Cubero "Yiyo" e il suo apoderado Tomàs Redondo, i quali erano sulla strada tra Calahorra e Madrid. La Guardia Civil li cercava per dir loro che Yiyo era ingaggiato per il giorno successivo a Colmenar Viejo, per toreare al posto di Curro Romero.
Quel domani a Colmenar Viejo il toro Burlero uccideva Yiyo con una cornata nel petto nello stesso istante in cui Yiyo lo stoccava.
Una morte allo specchio.

Yiyo ebbe giusto il tempo di correre alle assi e di sussurrare al suo peone El Pali: "Pali, questo toro m'ha ucciso".

Il chirurgo dell'arena dirà che aveva il cuore apero come un libro.

José Cubero "Yiyo" sarà sepolto con il suo abito granata e nero al cimitero della Almundena a Madrid, dopo che la sua salma avrà fatto, a hombros, un giro d'onore nell'arena di Madrid, piena.

Tomás Redondo, di pena, si suiciderà qualche anno più tardi.

Fu Yiyo, l'anno prima a Pozoblanco, il 26 settembre, ad uccidere il toro Avispado, che aveva appena incornato mortalmente Paquirri in una corrida che col tempo sapremo, morte dopo morte, che trasudava tragedia.

Paquirri morto.
Yiyo morto.
Montoliu banderillero d'El Soro e presente a Pozoblanco questo 26 settembre, morto, ucciso da un toro a Siviglia nel 92.

Morto il picador del Solo, incidente d'auto.
Morto l'allevatore di Avispado, assassinato a casa propria.

Morto l'anestesista dell'arena e morto il cameraman che aveva filmato l'incidente di Paquirri.

A Pozoblanco Paquirri aveva occupato la camera 103 dell'hotel Los Godos.

Il 30 agosto 85 al mattino Yiyo dormiva nella camera 103 dell'hotel Palmi a Miraflores vicino a Colmenar.

Yiyo aveva 21 anni.

Ogni 31 dicembre a mezzanotte gli uomini della sua famiglia, suo padre e Juan e Miguel, i suoi due fratelli banderilleros, vanno a posare una coppa di champagne sul monumento che gli è consacrato davanti a Las Ventas a Madrid.

Yiyo, lo pseudonimo, è la traduzione della sua storpiatura di bambino, quando provava a pronunciare il suo nome: Joselito.


- Libera traduzione di un testo di Jacques Durand, Il cuore aperto come un libro, ripreso da Philippe Marchi per Campos y Ruedos.


(foto Ronda - Yiyo davanti a Las Ventas)

martedì 28 dicembre 2010

La letterina


Caro Babbo Natale,
il grosso dovrebbe essere passato e un paio di giorni di riposo li hai avuti, quindi ora tocca a me scriverti la letterina. Tra l'altro la Befana ormai si sarà messa in moto, potreste anche unire le forze, perché no.
Per semplificarti il lavoro ti faccio qualche richiesta che a naso può andare bene anche per conto di qualche amico, direi che dovrei essere in grado di farlo.

Dai un occhio se ti è rimasto qualcosa in fondo al sacco, lì dietro sulla slitta, per me e per noi.
Per l'anno prossimo.
Tori, per l'anno prossimo vogliamo dei tori. Tanti tori. Tori selvaggi, di quelli che guardi negli occhi nei recinti e hai un brivido di paura, di quelli che quando entrano all'arena fanno tremare la terra, di quelli che nel cavallo mettono reni e testa, di quelli che sbuffano e attaccano, di quelli con i muscoli che vibrano e le corna che spaventano. Di quelli che applaudi quando se ne vanno, trascinati lentamente dalle mule.
Portami tori e bravura.
Bravura.
Quell'indefinibile cosa che rende selvaggia ancora questa nostra terra, nel verde del campo o nel recinto di un'arena.
Poi una manciata di veroniche di Morante, quelle veroniche sospese nel tempo, quelle veroniche che suonano una musica eterna, quelle veroniche.
E dopo quelle un'altra manciata, anche più generosa e questa volta di naturali, ma di quei naturales impossibili che Rafaelillo strappa a un Miura o che Sergio Aguilar ricama a un Escolar Gil.
Quei passi che uniscono arte e coraggio, sfida e morte, bellezza e vertigine.
Che fanno della corrida una cosa grande.
Portaci tanto sole giallo e caldo e anche un pò di mosche, ché senza l'uno e le altre la corrida, si sa, non è corrida; e però anche un paio, giusto un paio non di più, di corse con il cielo gonfio e nero, e l'acqua, perché anche gli elementi partecipino alla drammaticità di quei momenti.
Portaci emozione, passione, sentimento, e portaci toreria, che di quella c'è sempre bisogno, all'arena e fuori.
Dovremmo esserci.
Ma magari ti resta ancora qualcosa.
Portaci ancora serate nelle bodegas e visite alle ganaderias, perché ormai l'abbiamo capito che il vero piacere risiede lì, tra l'odore di sigari e anice e tra i profumi dell'erba bagnata e del fieno pronto.
Porta qualcosa anche agli impresari, che confezionino dei programmi originali e appassionanti, porta ispirazione alle bande che suonano nell'arena, porta serietà ai presidenti e coerenza agli aficionados.
Porta, infine, un pò di fortuna a quegli allevatori che ancora si ostinano a cercare casta nel sangue dei loro tori, a difenderla, preservarla, perché quando ce ne regalano in quelle arene polverose di paese o sotto i riflettori di Las Ventas, noi sappiamo che la corrida ha la pelle dura e ce la terremo ancora per un pò.

Riportaci José Tomas.
E Cesar Rincon, che se non lo chiediamo a te che sei Babbo Natale a chi lo possiamo mai chiedere.



(foto Ronda - Monumental a Barcellona)

lunedì 20 dicembre 2010

Luce




Da non perdere la straordinaria galleria di François Bruschet di Campos y Ruedos: una manciata di scatti favolosi presi un pomeriggio chez Cesar Rincon, a El Torreon.

C'è il nero cupo dei tori, il rosso tragico della muleta, il lilla elegante dei fiori e il verde acceso dei campi.
E quella luce sovrannaturale.

La foto qua sopra è un capolavoro, e le altre non sono da meno.
Per di qua.


(foto François Bruschet)

sabato 18 dicembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida



Perché vado a vedere le corride?

Avrei voluto parlare dell'eccitazione della mia prima corrida, seduto sugli stretti scalini di pietra della plaza de toros di Almeria, del sole che tramonta dietro l'arena, del caldo soffocante, dello sventolio degli abanicos, della merienda da compartir nel tendido general, degli olé della folla, del sentimento andaluso, del sudore e del sangue nel ruedo.

Una poesia sul rapporto con la tauromachia.

Accade però che domenica scorsa mi trovavo tranquillo nella mia casa, seduto in salotto, a leggere il blog di “Alle cinque della sera”. Nelle pagine dei preferiti, a destra, leggo una notizia. Dopo mesi di corride deludenti e tori mansi, di polemiche e figuras al ministero della cultura, si annuncia che il giorno prima Juan Mora – sin a quel momento a me sconosciuto – ha toreato, eccome se ha toreato, a Las Ventas.

Sono curioso. Dapprima vado su burladero.com, il mio quotidiano on-line, cerco informazioni. Titola di un trionfo degno di altre epoche.

Io penso alle immagini ormai leggenda di Madrid, giugno '82, corrida di Victorino.

Sono subito su youtube. Digito Juan Mora.

E lo vedo sullo schermo ripeso da vicino, dall'alto. Pochi passi di muleta ben portati, una danza con il toro, poi, all'improvviso, senza preparazione alcuna, la estocada. Perfetta. In sottofondo il rumore del pubblico. Lui che impedisce ai peones di intervenire e se ne va. Veloce, a passo sicuro, così come la morte data al suo compagno di quel pomeriggio.

Due orecchie.

Maestro.

Che meraviglia. Non mi basta. Cerco altre notizie, altre immagini che mi raccontino l'evento. Decine di siti internet in francese e spagnololo. Sono contento, era ora esclamo. Quanto avrei voluto esserci, penso. Con che avidità leggo di quella magnifica tarde.

Passo davanti al computer due ore e mezza. Come ci fossi stato nell'arena. In quell'arena a vedere il trionfo di Juan Mora.

Ci ripenso oggi e sorrido soddisfatto. Sono tornato altre volte a vedere quelle immagini, a vedere quei tori che hanno permesso tutto questo, quell'arte che mi ha preso l'anima e mi coinvolge ogni volta sempre di più. La corrida è viva!

Ecco perché vado a vedere le corride e perché continuerò a farlo: per quell'emozione che ti prende in una domenica pomeriggio d'autunno, in un salotto a Verona, a chilometri di distanza.


Diego Girelli


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)



mercoledì 15 dicembre 2010

Ceret 2011


L'Adac di Ceret conferma la sua vocazione di laboratorio sperimentale e si getta anche per l'anno prossimo alla ricerca di encastes ormai rari e di allevamenti misconosciuti.
Pure per il 2011 la formula sarà quella felicemente inaugurata quest'anno, con una seconda novillada programmata per il sabato mattina.

Ecco dunque i tori per Ceret 2011:

2 corride - Escolar Gil (di Avila, provenienza saltillo-albaserrada) e Couto de Fornilhos (portoghesi di Alentejo, provenienza tamaron)

2 novigliade - Moreno Silva (di Cordoba, provenienza marqués de saltillo) e Irmao Dias (portoghesi di Santo Estevao, provenienza terra portuguesa/norberto pedroso; quattro novillos, al sabato mattina)


(foto Ronda - Ceret 2010)

lunedì 13 dicembre 2010

Dune





Questa foto è straordinaria.
Sembrano le due di un deserto, sono tori a Madrid.


E' opera di Juan Pelegrin: la sua pagina flickr va visitata.


(foto Juan Pelegrin, in arte Manon)

domenica 12 dicembre 2010

Victoriano e i suoi coglioni


Dodici settembre di quest'anno, Dax ha un nuovo natale.
Il dodici settembre 2010 segna per la città termale delle Lande una nuova data-zero, segna un prima e un poi: l'ultima corrida del miniciclo di Toros y Salsa è trionfale, di quelle che scrivono una pagina di storia, di quelle che segnano l'epopea di un'arena.
Tori di Victoriano del Rio per Morante, El Cid e El Juli.
I tre usciranno dalla porta grande sulle spalle di uomini robusti, e tutti e tre con qualcosa in mano: chi un paio di orecchie, chi tre, chi (Juli) addirittura la coda.
A stare alle testimonianze dei nostri amici che erano seduti su quei gradini, il pomeriggio è stato grande davvero: e i naturales di Morante, qualcosa di celestiale.
Per non parlare della poderosa scienza del Juli, che fu capace di far esplodere la bombonera landese.

C'è che quel giorno i sei tori di Victoriano sono usciti come toreri, allevatore e pubblico speravano e pregavano che uscissero: con bravura e nobleza, casta e forza e franchezza nella carica.
Con tanto materiale, Juli poteva dare l'ennesima dimostrazione di superiorità, El Cid poteva tornare a pensarsi torero e Morante poteva abbandonarsi all'ispirazione e alla purezza della sinistra.
Buenasuerte e Aldeano, il secondo e il terzo toro, premiati con il giro d'onore.

Alla fine dunque l'atmosfera era elettrica e l'arena in ebollizione, i tre a hombros a girare per la pista accompagnati dal mayoral, e li pubblico a spellarsi le mani.

Tutti euforici dunque e tutti a godersi il trionfo, tutti tranne uno.
L'allevatore.
Che evita gli abbracci, schiva i fotografi, scarta gli aficionados e si affretta all'uscita, dove già l'aspetta il fratello: i due salgono in macchina e si dirigono veloci fuori dalla città.
Che don Victoriano non abbia gradito la prestazione dei suoi sei pupilli?
Tutt'altro.
I due, a cavallo della grossa cilindrata, mangiano i chilometri a tutta velocità e arrivano in pochi minuti ad Hagetmau: lì, nel macello comunale, giungono i tori stoccati nelle arene della zona.
Victoriano è risoluto: si qualifica, e recupera i gioielli.
Esatto, i gioielli: i testicoli di Buenasuerte e Aldeano.
I coglioni dei due tori migliori del sestetto.
Confesso che pagherei per aver potuto vedere l'espressione del macellaio alla vista della Mercedes nera superlusso, di quel distinto signore che ne scende ed entra a chiedere la mercanzia...ma questa è un'altra storia.

Il prezioso materiale è finalmente nelle mani di Victoriano.
Che evidentemente ha in testa di non lasciare senza eredi, pur se questi nasceranno postumi, Buenasuerte e Aldeano.
L'ingegneria genetica oggi fa miracoli, e chissà che tra cinque anni gli abbonati di Dax non si ritroveranno ad applaudire un nuovo Buenasuerte o a festeggiare la vuelta di un nuovo Aldeano.

Via, i 4 affari sono riposti con cura in un recipiente pieno di ghiaccio, e i due uomini ripartono.
Il motore gira al massimo, c'è da arrivare in Spagna il prima possibile.
La tenuta è a Guadalix de la Sierra, non lontano da Madrid.
Madrid, Spagna.
Spagna.
Spagna, appunto.
Spagna, cazzo! Non stiamo andando in Spagna!
E' che nella concitazione del pomeriggio e nella foga della spedizione al macello, a don Victoriano deve essere andata un pò in confusione la testa: i due fratelli, e i quattro testicoli, dunque otto testicoli in tutto sulla macchina, hanno preso l'autostrada nella direzione sbagliata.
Stanno andando verso Bordeaux, insomma la Spagna ce l'hanno alle spalle, ogni minuto più lontana.

Se ne accorgono, fore smadonnano, di sicuro escono, rientrano e via a tavoletta verso Guadalix, prima che il ghiaccio si sciolga e faccia rinsecchire le quattro uova.
Ma il destino cinico e baro ha piazzato un autovelox abolizionista lungo il loro cammino.
Flash!
Limite a 110, il piedone di don Victoriano spingeva l'acceleratore a 171.
Siamo un filo sopra, in effetti.
La polizia fa il suo dovere, e poco più avanti li ferma.
Patente ritirata e 750 euro di multa.
Vaglielo tu a spiegare che stai andando come un disgraziato per riportare in Spagna 4 coglioni dei tuoi tori.
Ma non c'è tempo per discutere, si mette alla guida il fratello e via di nuovo.

E' per tutto questo che Victoriano del Rio era invitato a comparire lunedì scorso al tribunale di Dax.
Un vizio di procedura, segnalato dal suo avvocato (un aficionado della zona) ha fatto scivolare la nuova udienza ai primi di gennaio.
Un'altra faccia che vorrei vedere è quella del giudice, quando gli diranno che il macchinone andava a 171 km all'ora perché trasportava un carico prezioso.

Ah, giusto, i testicoli.
Al loro arrivo, alle prime luci dell'alba, i due fratelli ganaderos hanno trovato già pronto ad aspettarli il veterinario dell'allevamento.
Che, gli arnesi già pronti, pare sia riuscito ad estrarre dai 4 gioielli il necessario per dare una discendenza ai due tori.
A questo punto c'è da vedere se i prossimi Buenasuerte e Aldeano avranno, oltre che la casta dei genitori, anche la velocità dell'allevatore.


(foto Ronda - all'arena di Dax)

sabato 11 dicembre 2010

Olé, maestro


Vargas Llosa, nobel per la letteratura, aficionado.
A Stoccolma con la montera di Curro Romero.

martedì 7 dicembre 2010

Pane e Tori


Per prima è arrivata la carne battuta al coltello, con il tartufo affettato.
No, anzi. Prima c'era la robiola di Roccaverano. No, occorre correggere. Prima c'erano state le telefonate, gli inviti, l'organizzazione, chi prende la macchina, chi porta il vino.
No, ancora no. Prima ancora c'erano state un pò di ferias insieme, parecchie cene e serate autunnoinvernali ovvero la temporada più impegnativa, la salve rociera a Les Andalouses e la tienta del lunedì, un puttanaio di birre e il manchego, e un numero imprecisato di bottiglie immolate alla causa.
No, non ci siamo ancora. Prima c'erano stati pomeriggi interi passati insieme all'arena, pagine e pagine del blog, anni di aficion individuale e poi finalmente di aficion collettiva, chiamate, contatti, brindisi, tonnellate di mail, Nucci ce la fa o non ce la fa, questa volta a chi facciamo il test, lo stinco di Pietro (non il suo, quello del vitello sacrificato per l'occasione).
Nucci domenica viene o no.
Ma va. Prima di tutto sono arrivati gli spumanti. No, nemmeno. Prima le strette di mano, Giuseppe il papà a fare da anfitrione, una sigaretta con lui prima di attaccare le danze.
Niente, non è mica vero. Prima c'è stata la presentazione a Torino con il nostro eroe e l'improponibile leoncino, poi il blitz a Saint Martin, le mattinate da Tardieu, la sbronza della sera di Clavel Blanco, i pranzi indescrivibili sotto la Mole, le serate infinite alla Batficion.
Mi sbaglio. Prima di tutto è arrivata la torta verde. Ops, scusate: la Torta Verde.
Prima di quella tutti gli sms da ogni parte di Spagna, sono a Segovia, sono da Nunez del Cuvillo, siamo a Tafalla, qui a Cenicientos tutto bene.
La serata davanti alla televisione per la finalona dello Strega. La grigliata nel camino davanti alla placita de tienta. I pranzi cispadani con asinina e cavallo.
E poi la carne battuta al coltello con il tartufo affettato, con il tartufo che occupa narici e palato e terrà la posizione per giorni e giorni, e il Maestro che pretende Prieto de la Cal.
Il risotto ai formaggi con il tartufo, e Nucci che è lì sul camino.
La barbera, il rioja, l'anatra e il pollo.
E infine lui, lo stinco. La prossima volta bisognerà tenere un posto sul pullmino tutto per lui.
Lo stinco, il nostro migliore amico.
Dopo El Pana, si intende.

Il problema è che c'è vita oltre lo stinco. I funghetti che accomunano l'infanzia dei piemontesi a quella dell'ex-piemontese ora trapiantata in Emilia, Miguel e Flor, i ricordi delle corse viste insieme e di quelle viste da soli, chiama Nucci e digli che la Lazio vince il campionato e godiamoci il suo rotondo porcoddio, poi il momento del sigaro, degli amari e del sigaro, delle chiacchiere e del sigaro, e senza stocazzo di sigaro che aficionados saremmo d'altronde.

Una domenica di aficion, senza tori, lontani dai tori, una domenica meravigliosa e piena, eppure grazie ai tori.
Domenica scorsa, insomma.

Compagni di aficion, è per voi.

Sì lo so, è tutto molto autoreferenziale ma amen.
Dopo due giorni, con in bocca ancora il profumo di quei tartufi e negli occhi ancora il sorriso della Marzia e il volto soddisfatto del Pana, funziona così.
Non si può scrivere altro.

Sono comuni le cose degli amici.
I tori, e tutto il resto.

Pan y Toros.

All'italiana sarebbe Pane e Tori.
Neanche male, dai.


(Pan y Toros, Elisa)


sabato 4 dicembre 2010

Un toro



Corna, trapio, fierezza, arroganza, campo, forza, muscoli, sudore, morillo, negro, furia, sangue, potenza, coglioni, testa, monta, carica, sguardo.
Bravura.

Qui in alto uno splendido esempio, di Tardieu.

(foto Ronda)


giovedì 2 dicembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida


Andiamo a los toros per continuare a provare sentimenti e passioni che pochissimi altri spettacoli, eventi o riti, riescono a darci.
Perchè se il tipo di emozione è sempre lo stesso, ogni volta cambiano i motivi che la provocano.
Perchè in ogni corrida c'è qualcosa di nuovo da notare e da imparare.
Perchè si spera sempre di essere testimoni di quell'attimo magico in cui matador e toro riescono a fondersi e confondersi inventando una suerte irripetibile.

Perchè si trascorrono due ore totalmente fuori dai nostri schemi quotidiani e in mezzo a persone che non conosci ma che senti fratelli di aficion.
Perchè nell'arena si vede il merito premiato e lo sbaglio punito. Subito, senza compromessi.
Perchè la vita e la morte, la bellezza e la lealtà, il coraggio e la bravura, meritano di essere celebrate, discusse e talvolta applaudite alle cinque della sera.


Angelo Tirelli


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it )


martedì 30 novembre 2010

Io sono voi, e voi non siete un cazzo


"Mi sta sui coglioni perché la sua protesta sbracata, approssimativa, è roba per sempliciotti, non va da nessuna parte anche se porterà l'artefice o qualche testa di paglia nelle tanto odiate istituzioni, dove si fa sul serio. Ha accusato il defunto Marco Biagi di aver creato con la sua legge il precariato: quando il senatore del Pd Pietro Ichino l'ha sfidato a un confronto pubblico non ha neanche risposto.
Ha dato dello speculatore a Veronesi, definito "cancronesi", è disinformante sul nucleare, le sue proteste sono considerate di Sinistra ma sono in realtà peroniste, le sue proposte sono oniriche".
Maledice la cancrena dei partiti e intasca i rimborsi elettorali (salvo risputarli una volta sgamato).
I grillini sono i mitomani, i frustrati, i desiderati degli anni Settanta, i senz'arte né parte che si rivesciano in piazza sperando di colmare la loro spaventosa solitudine mentre sfogano sul dittatore di turno l'odio verso sé stessi e i propri fallimenti".

Così scrive Massimo del Papa, fra le più caustiche e immediate firme del giornalismo italiano, in un fondo dal titolo "Perché non ci piace Grillo", pubblicato sul Mucchio 676 di questo mese.
Precisiamo subito che l'autore di questo blog si riconosce pienamente tanto nell'analisi del fenomeno grillismo contenuta in quell'articolo (che si dilunga ben oltre la riproposizione qui sopra), quanto nel sentimento di insofferenza per l'approccio immacolato e censore a prescindere e per gli slogan populisti, e in generale per il personaggio a capo del movimento.
Il Vaffa-day è stato uno dei momenti più bassi della nostra storia più recente, una manifestazione la cui piattaforma politica (il vaffanculo) è roba per gli inquilini del Grande Fratello.

Ma certo questo non è il luogo per abbandonarsi ad analisi e critiche nel merito politico.

Solo che la lettura (masochista, lo ammetto) del noto e messianico blog, quello in cui la verità è rivelata, ha regalato uno spunto che può interessare i lettori di queste pagine.

"Dalla parte del toro Quesero" è il titolo del post nel quale si commenta la vicenda di Tafalla, dove in agosto un toro saltò sugli spalti.
Che viene commentata così: "Mi spiace per i bambini feriti, non per i genitori che li educano all’assassinio di un animale per puro divertimento."
Seguono, ad oggi, 179 commenti in cui gli adepti del Grillo-pensiero sviluppano il Grillo-pensiero (il Movimento è orizzontale, si sa): tori, corride, animali, torture, olé per Quesero, l'uomo è il cancro della terra, famiglie dalla parte del toro, eccetera eccetera.
Con qualche perla, questa per esempio: "vorrei ricordare anche gli amici pesci: sarebbe bello che anche loro riuscissero a saltare fuori dal cestino in cui vengono posti ad agonizzare per ore o giorni e azzannassero qualche pescatore, un sogno. ricordiamoci che tutti gli animal soffrono."

Magari uno dei commenti l'ha scritto la Brambilla, chi lo sa.

Insomma Grillo ha ben chiaro da che parte stare.
Tra l'uomo e gli animali sempre dalla parte di quest'ultimi, dice un suo discepolo.
Avanti così, che andiamo bene.



post scriptum: il titolo di questo post è una citazione da quel Marchese del Grillo che ha in comune, con l'ineffabile moralista in questione, non solo il nome ma anche tutto il profilo spocchioso e reazionario. Sia anche, per quel poco che vale, un tributo a quel grande uomo che stava dietro la macchina da presa durante le riprese del film: si è gettato dalla finestra, per sfuggire alla morte.

domenica 28 novembre 2010

La luce pallida della luna




Non fosse altro per la straordinaria aneddotica che custodisce e continua ad alimentare, la tauromachia andrebbe ascritta sul serio a patrimonio dell'umanità.
Storie assolutamente vere e tanto incredibili alle quali solo forse gli aficionados sanno che è del tutto logico credere, nemmeno più tanto se ne stupiscono, loro che conoscono la magia unica dell'incontro tra l'uomo e il toro, l'inarrivabile e drammatica verità della corrida, l'ineguagliabile profondità di un'arte indescrivibile e unica.

Paco Ojeda fu uno dei toreri che fecero la storia della corrida negli anni '80.
Nel 1988 addirittura fece filotto a Nimes, toreando consecutivamente in tutte e cinque le corse della feria di quell'anno, compresa quella miureña.

Ancora oggi, intervistato, si emoziona ricordando la faena che impose a un toro de La Quinta, a Madrid.
Era il 30 maggio del 1983.
La bestia uscì dal toril lanciando occhiate precise in direzione del torero: vediamo se ti ci metti, con me, sembrava voler dire ad Ojeda.
L'arroganza del toro bravo.
Ojeda rispose con calma francescana, atrezzando una faena verticale fatta di tranquillità e autorità insieme.
Per gli ultimi passi la distanza tra i due avversari si era ormai ridotta, annullata, fatta inutile.
Il toro mise il muso addosso al corpo del maestro, lo guardò inchiodando i suoi occhi in quelli dell'uomo, gli annusò la giacchetta, con il corno giocò curioso con i pendagli del traje.
Ojeda immobile.
Qualche minuto dopo, passeggiava con le due orecchie alla mano lungo le assi di Las Ventas.

Oggi si commuove ripensando a quel toro e a quella faena.
E chissà se erano di emozione le lacrime che lo stesso Ojeda sostiene di aver visto bagnare gli occhi dei tori, ma solo di quei tori pienamente e totallmente coinvolti nella faena, implicati nel gioco, impegnati senza concessione.
Ma bisognava esser loro vicini, molto vicini, diceva il torero, per vederle.

Nell'ottobre del 1982 Paco Ojeda combatte sei tori in solitaria, alla Real Maestranza di Siviglia.
Quattro orecchie, e l'arena è lasciata attraversando la Porta del Principe come un surfista che cavalca le onde: la tavola le spalle di un volontario, i cavalloni le braccia della folla che lo acclama, lo tocca, lo chiama, lo bacia.
Un trionfo rotondo che autorizzerebbe una festa enorme, bere fino a sfiancarsi, festa per tutta la notte, che autorizzerebbe il torero ad abbandonarsi alla felicità senza limiti-
Ma il corpo, il corpo come lui oggi dice, glielo impedì: il corpo lo obbligò a salire in macchina, dirigersi in campagna e là toreare qualche vacchetta.
Solo, senza testimoni né applausi, sotto la luce pallida della luna.



(foto Ronda - Sergio Aguilar e un toro de La Quinta, Vic Fezensac 2009)

sabato 27 novembre 2010

Saltiamo l'inverno




E pensiamo direttamente all'anno prossimo, che qua la nebbia e la nevicata imminente ingrigiscono le giornate e tengono lontani i tori.

Pamplona ha selezionato gli allevamenti per la prossima San Fermin: Miura, Cebada Gago e Dolores i ferri di maggior peso, con El Pilar e Fuente Ymbro tra gli altri.

Si è messa avanti anche Saragozza, che con una corrida di Prieto de la Cal e una di Cuadri, e una concorso interessante (Partido de Resina e Adolfo tra gli invitati) potrebbe diventare una meta appetibile per qualche buon pomeriggio di tori.

Orthez, nel sud-ovest francese, confermerà con un lotto di Dolores Aguirre e una novillada di Aurelio Hernando, sconosciuto allevatore che ha in casa del sangue veragua.

José Tomas di tanto in tanto si lascia andare a mezze frasi che fanno intendere un suo ritorno per l'anno che viene, e le grandi imprese si stanno affrettando a prenotare sestetti di tori di suo gradimento.

Partido de Resina sarà a Madrid e Nimes e in concorso a Saragozza e Vic Fezensac; Victoriano del Rio in parecchi posti tra cui anche Las Ventas dove dovrebbe apparire in compagnia del Messia; Garcigrande e Daniel Ruiz presenzieranno massicciamente in Francia, il che fa prevedere un'altrettanto massiccia calata nelle arene transalpine de El Juli, Bayonne, Arles, Nimes, Dax e altro ancora.

Escolar Gil ritornerà a Madrid, in compagnia di Palha, Cuadri e Flor de Jara in novillada, mentre El Pilar non solcherà la sabbia di Las Ventas.

Siviglia non abbandona il filone horror degli ultimi tempi e si è già dotata di un cartel terrificante.
Il toro ritratto è un Juan Pedro Domecq, n° 179, 525 kg, combattuto alla Real Maestranza il 7 aprile 2008 da José Maria Manzanares.
Dimmi che toro scegli e ti dirò chi sei...

Avanti tutta, d'altronde la prossima stagione non è così lontana.

(nella foto il manifesto della temporada 2011 a Siviglia, opera del sedicente artista JM Sicilia)

giovedì 25 novembre 2010

25 novembre, Nimeño II s'est pendu


Nimeño si è appeso. Impiccato. Suicidato.
Era il 25 novembre del 1991 e Christian Montcouquiol la faceva finita, nel garage di casa.
Là fuori la moglie e i due figli, il fratello che l'aveva accompagnato dalle capeas della speranza fino a Las Ventas o Lima, e poi gli aficionados, i tori, la passione, la vita.
Là fuori anche la capa, che non poteva ormai maneggiare più: aveva ripreso tutto a muoversi, tutto, tranne il braccio sinistro.
Niente più muleta, niente più tori, niente più vita.
Trentasette anni.
Dev'essersi impiccato con il destro.

Il fratello, Alain, scriverà per lui pagine strazianti e bellissime: sono raccolte in due libri emozionanti e commoventi, che non ogni aficionado ma ogni uomo interessato agli altri uomini dovrebbe avere, leggere, raccontare.

Panolero aveva le corna come le portiere di un taxi, quel pomeriggio ad Arles.

Da queste parti se ne è parlato poco.
E non perché la storia di Nimeño II ci sia indifferente, anzi: abbiamo mandato a memoria interi capitoli dei libri del fratello, abbiamo visto e rivisto quei pochi video o documentari che lo hanno eternizzato su celluloide, abbiamo letto, cercato, conosciuto.
Se ne è parlato poco per una sorta di senso di inadeguatezza al confronto di una storia tragica e immensa, per l'incapacità di tradurre in parole adatte la sensazione di grandezza che la figura di Nimeño II trasmette, per sincera riverenza.

Eppure, in un qualche modo, Nimeño II l'abbiamo conosciuto anche noi.
Attraverso le lacrime.
Attraverso gli occhi rossi, che si fanno umidi, attraverso le labbra che si contorcono in una smorfia, per la voce che si rompe.
E quindi le lacrime, senza vergogna, terribilmente vere.
Un torero si può conoscere attraverso le lacrime di chi lo racconta, anche a vent'anni da Panolero.

Una domenica di Pasqua, la sera ad Arles, daube e vino rosso e due commensali che l'overbooking del ristorante costringe al nostro tavolo, o forse era il contrario, noi che ci sistemiamo sul loro, sì più probabile fosse così.
Bonsoir, merci, siete italiani, che bello due italiani alla feria. E via così, bello.
Finché lui, mentre lei con un gesto che è pieno di tutto posa la forchetta e semplicemente ascolta, ancora una volta, finché lui parla di Nimeño, di quel torero con la faccia gentile, dei tori che si digeriva, della verità che metteva in ogni cosa.
E in mezzo a tutta quella gente, che si accalca all'ingresso, assalta il bancone per un bicchiere di fino, parlava ad alta voce della corrida del pomeriggio, con le sevillanas di rito, in mezzo a tutto questo, davanti a noi che aveva conosciuto mezz'ora prima e con cui aveva bevuto non più di un paio di bicchieri, quell'uomo si mette a piangere.
A vent'anni da Panolero.

Un venerdì sera a Nimes, un bel venerdì caldo di settembre, al pomeriggio corrida di Miura, serata nelle bodegas.
Un incontro programmato da tempo, di quelli che si fanno tra aficionados che abitano a parecchie centinaia di chilometri di distanza, di quelli che arrivano dopo chiacchiere invernali via mail.
Birra al bancone. Calamares. Un'altra birra. Ancora. E poi calamares e birra.
I Miura al pomeriggio. Sempre i Miura. Nimeño II.
Me lo ricordo quando andava a esercitarsi al parchetto qua vicino, aveva una parola per tutti, un sorriso per i bambini, Nimeño era come noi, uno di noi, aficionado e solo poi torero.
Me lo ricordo Nimeño, mi ricordo i suoi occhi neri, mi ricordo la sua muleta davanti al muso di quei tori.
Un sorso di birra, la voce spezzata, le lacrime.
Senza nessun imbarazzo, lacrime, lacrime per Nimeño a vent'anni da Panolero.

Fino a ieri sera, quando per caso ci siamo messi davanti a un video sui tori, ché la nebbia fuori dalla finestra invitava ad una serata casalinga.
Un documentario di un'oretta scritto su testi di Jacques Durand, che è come dire una pellicola sul calcio costruita sugli articoli di Brera.
Intervistano un appassionato, il quale con orgoglio mostra la sua collezione di biglietti di corrida.
Ora, è normale immaginarsi che quel signore fosse stato avvisato, e che magari avesse concordato cosa dire, come dirlo, di cosa parlare.
Eppure davanti alla telecamera quel signore, un signore dalla faccia simpatica, una sessantina d'anni, baffi e capelli ormai più bianchi che neri, prende l'iniziativa, recupera dall'armadio una bella scatola di latta e mostra compiaciuto la sua preziosa serie di biglietti delle corride a cui ha assistito in quarant'anni di passione: e poi decide autonomamente di tirare fuori il pezzo più prezioso, corrida del 14 maggio '89, mano a mano tra Victor Mendes e Nimeño II, tori di Guardiola.
La camera stringe sul biglietto, la voce di quel signore ci racconta quella corrida storica, epica, che un'incidente a Mendes trasforma in un solo contro sei di Christian, il quale non abdica, combatte. La camera è ancora sul biglietto ma il racconto si fa meno sicuro, le parole inciampano, balbettano.
Si torna al primo piano, gli occhi sono rossi e stanno piangendo lacrime.
Per Nimeno II, che non c'è più.

lunedì 22 novembre 2010

Integralismi


...in salsa transalpina.

A Frejus, cittadina balneare con tanto di teatro romano in cui si danno (davano, meglio) corride - la sola feria ad est del Rodano, lo slogan più utilizzato - il sindaco ha le idee chiare.
E' ora di farla finita con la morte dei tori sulla sabbia dell'arena locale, è la sintesi del pensiero del primo cittadino (qui).
Gli aficionados di Frejus, compresi e a maggior ragione gli aderenti al club taurino La Lidia, sono evidentemente scossi e angosciati.
Tanto più che (attenzione che è esilarante) il funambolico sindaco non più tardi di una decina di anni fa firmava il libro d'oro dell'arena, in occasione della feria, in questo modo: "Dal 1905, la tradizione taurina è ancorata a Frejus. L'arena romana ha trovato nelle corride la sua vocazine originale. Oggi mi auguro che Frejus ritorni ad essere un riferimento per la tauromachia e affermi la sua identità di città taurina".

Chapeau, signor sindaco.

Al contrario a Beaucaire, cittadina provenzale con una tradizione taurina viva e decisa, il sindaco Jacques Bourboursson ha preso un'iniziativa altrettanto clamorosa e di segno opposto.
In due riprese ha negato allo scrittore Henri J. Servat, di posizioni dichiaratamente e rigorosamente anticorrida, il permesso per tenere nel teatro della città il suo spettacolo, nel quale non sarebbero risparmiate critiche e ingiurie alla corrida (qui).
Le sue tesi umilierebbero e insulterebbero le tradizioni della città.

Chapeau, signor sindaco.

(foto: il manoscritto di Elie Brun, sindaco di Frejus)

domenica 21 novembre 2010

Tauroética


Tauroética di Fernando Savater è un libro denso, non particolarmente impegnativo né tantomeno lungo, ma denso sì: denso di quella profondità che hanno i titoli che obbligano il lettore a riflettere, a indagare nel proprio pensiero per confrontarlo con quello dell'autore, ad appuntare a matita a bordo pagina.

Composto di testi diversi tra loro sia per prospettive che per argomentazioni (di fatto si tratta di una raccolta non omogenea di scritti dell'autore che gravitano intorno al mondo del toro o degli animali), è nel suo secondo capitolo Nuestra actitud moral ante los animales che Tauroética disvela tutta la propria innegabile importanza e la propria limpida bellezza.
Chiariamo subito che in questa speculazione i tori non sono che un pretesto solo accennato, un punto di partenza che permette a Savater di costruire una teorizzazione seria e penetrante circa il rapporto tra uomo ed animale: in un'epoca in cui la deriva disneyana appare sempre più inquietante, in cui rapidamente ed inesorabilmente si stanno riscrivendo le leggi che regolano la correlazione tra uomo ed animali, le lucide parole del filoso spagnolo arrivano come una benedetta iniezione di buon senso, verità, intelligenza.

Si parte confutando le tesi antispeciste di Bentham e soprattutto di Singer (chi ha voglia, cerchi qualche notizia su quest'ultimo in rete, e si faccia un'idea), e si prosegue riflettendo su ontologia ed etica, sulla natura precipua dell'essere animale e dell'essere uomo.
Le conclusioni definiscono dunque le relazioni opportune tra mondo animale e mondo umano, tornando al punto di partenza quando queste sostengono che la tauromachia rientra legittimamente in questa cornice di (giusti) rapporti.

Un testo di filosofia ed etica più che un libro sui tori, quello di Savater: in ogni caso una lettura interessante ed arricchente, pure imprescindibile per coloro i quali sono attenti e appassionati al dibattito uomo/animale.

"Non pratico né la caccia né la pesca, benché consumi i loro prodotti, e nemmeno sarei capace di lavorare in un macello: conosco quello che ripugna alla mia sensibilità, però non avrei mai l'arroganza di convertire questo in norma etica da imporre a tutti".

Tauroética, di Fernando Savater, per le edizioni Turpial di Madrid: consigliato.

giovedì 18 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida (seconda parte)





Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come l’animale che gira intorno all’uomo in una danza interminabile. Nulla è come l’uomo che sa stregare il toro e sa accompagnarlo sul cammino della perfezione fino alla morte. La muleta e il grido del torero che invita l’animale a caricare, il panno rosso e il movimento del braccio teso in avanti e le gambe divaricate e la mano sul fianco. “Mira, mira, mira, eh, bonito”. Il muso del toro e gli occhi che per un attimo sembrano percorsi da una fiammata eppoi la carica e il panno che si muove mentre le corna affondano nel corpo che non c’è e uno scarto e un cambio di mano e la muleta che ricompare nella sinistra e il toro che si volta e attacca di nuovo. Non c’è nulla da dire, nulla da fare o da commentare. Anche l’esperto che è accanto a te sui gradoni del tendido sta zitto, non ha più voglia di criticare o gridare e rimproverare i tori, i toreri, gli impresari, i cavalli e tutta la sventura di questo mundillo taurino che sta portando le corride alla disfatta, perché tutto è decadenza, tutto è noia, ormai, tutto è fine di un mondo che era beato e perfetto solo cento anni fa. No, anche l’esperto accanto a te non ha più forze per criticare e rimpiangere, anche lui tace e guarda il toro girare attorno all’uomo e sente i sospiri di chi gli è accanto e in quei sospiri si lascia trasportare.

Fu l’anno che percorremmo le strade dell’Extremadura, ci fermammo in cittadine che erano la forza dei conquistadores spagnoli, visitammo cattedrali e palazzi e regolarmente riuscimmo a infilarci nelle ferias dei paesi più sperduti pur di perderci nella felicità intrisa di morte di ogni festa spagnola. Perché questo ha la felicità tracimante che rende immortale una notte di fiesta, quel senso di morte accettata e sfidata, quell’idea della fine che è talmente onnivora da non poter essere affrontata in altro modo che con la sua esaltazione. Bere fino al termine delle possibilità umane, mangiare con una voracità che superi qualsiasi ansia di competizione terrena, giocare, danzare, gridare, amoreggiare e guardiamola in faccia la puttana morte. Così mangiammo coda di toro in una taverna che sembrava una semplice casa, sulla strada provinciale da Valverde de Leganés a Barcarrota. C’era una scritta nera sull’intonaco bianco, era una pennellata sbattuta sul muro da una mano tremante e le lettere erano ineguali: Venta. Ma cosa si vendeva? Dentro c’era una signora di una cinquantina d’anni che si arrabattava dietro tessuti che cuciva per non so quale tipo di ricorrenza. Ci disse che potevamo mangiare coda di toro, era pronta, l’aveva preparata nelle ore precedenti, ore e ore curandola con infinito amore. Se invece volevamo qualcosa di diverso la scelta era ristretta a poche cose. Non lasciammo che le elencasse e chiedemmo coda di toro. Era un miracolo che si scioglieva in bocca e un sogno che non potrò vivere mai più perché col tempo il sogno ha assunto un carattere extra-mondano come i ricordi dei tempi d’oro per gli aficionados che non si vogliono accontentare e desiderano solo sognare. La mia coda di toro perfetta resterà sempre quella della signora malinconica, la signora felice che noi fossimo lì a elogiarla, l’unica suprema coda del mondo, assieme alla coda della Mesòn de Paco a Jerez de la Frontera, una trattoriaccia dove torno sempre ogni volta che sono in Andalusia. E chissà invece se ritroverò mai la venta sulla strada da Valverde de Leganés immersa nella dehesa perfetta, tra allevamenti di toros bravos e allevamenti di maiali patanegra, chissà se ritroverò mai la signora indaffarata con tessuti di un’altra epoca. Era buio in quello stanzone dalle mura disadorne, fuori il sole attanagliava ogni cosa, ma lì regnava la penombra e la signora ci parlò dei novillos uccisi in paese due giorni prima e ci invitò a seguire la corrida della sera. E noi andammo. La plaza era dentro il paese. Sembrava uno spettacolo d’altri tempi e mentre seguivamo il flusso di gente che si arrampicava per i vicoli di Barcarrota ci chiedevamo come fosse possibile. Ma le mura della plaza erano integrate nelle mura delle case e sembrava di vivere un tempo che ci era ormai sfuggito.

Il giovane torero della zona era aspettato da un’enorme quantità di amici e conoscenti e familiari e tutto era pronto per il suo trionfo. I novillos erano piccoli e maneggevoli e i primi tre animali esaltarono l’arte dei ragazzi. Poi quando fu il momento del quinto qualcuno ripeté il proverbio “no hay quinto malo” forse per sottolineare l’eccezione perché era un toro che di caricare, lottare e uccidere sembrava non avere nessuna voglia. Il peggio fu che anche il ragazzo che gli si trovava di fronte non sembrava essere divorato dal morbo dell’aficiòn e, dopo le rose e i cappelli e i ventagli gettati al suo compagno che era l’eroe di Barcarrota, entrò nell’arena come svuotato. Fu uno degli spettacoli più dolorosi e tristi a cui potessimo assistere. L’animale scartava continuamente e il novillero ne aveva paura e tutta la corrida fu una gara del ragazzo con se stesso per non correre troppo velocemente fino alla fine, ma quando la fine arrivò invece fu lentissima. Il ragazzo si apprestò a mettere l’animale in posizione per ucciderlo dopo aver dato pochi passi di muleta, ma l’animale non allineava le zampe anteriori e il ragazzo gli sventolava la muleta sul muso per farlo spostare e l’animale avanzava, si voltava, faceva qualche altro passo e mai che riuscisse a fermarsi con le zampe anteriori perfettamente parallele tanto da scoprire alla vista del novillero il punto fra le scapole dove infilare la spada. Il pubblico intanto aveva già festeggiato e non ebbe pietà. Cominciò a rumoreggiare, a sospirare, a fischiare. Io vidi la mascella del novillero tremare di paura e di rabbia, il sudore scendere sulla tempia e gli occhi quasi vitrei e annoiati e sprezzanti fino al sussulto che spinse il ragazzo alla rabbia contro il pubblico che aveva esaltato il suo compagno per semplice spirito di appartenenza. Lo vidi che ignorava le zampe del toro e si metteva in posizione, alzava la spada sulla spalla, mirava, abbassava la muleta verso la sua destra eppoi gridava e saltava oltre le corna del toro e la spada rimbalzava sulle scapole del toro e volava via lontana. Sentii le grida del pubblico e vidi il ragazzo terreo in viso avanzare verso la spada mentre i suoi aiutanti distraevano l’animale. Vidi questa scena ripetersi quattro volte finché la spada entrò sul dorso dell’animale, obliquamente e per metà, e vidi l’animale muoversi stancamente mentre il torero era sommerso di fischi e vidi il ragazzo tentare di darsi un contegno con uno stoicismo che doveva aver tirato fuori dalle pieghe del suo terrore di fallimento tanto da apprestarsi davanti alle corna del toro ostentando uno stile e un’eleganza che parevano adesso sovrannaturali. Fischiatemi pure, cabrones – sembrava dire. Fischiate tutto, ma io e quest’animale qui siamo fratelli. E quel che fece il toro dopo? Non potrò mai dimenticarlo perché fu una delle morti più strazianti a cui io abbia mai assistito. Restò fermo ansimante con la bocca aperta a guardare il ragazzo immobile davanti a lui, lo guardò con una pena e una fraternità che ormai io consideravo evidenti. Poi si voltò, quasi salutandolo e dicendogli addio, lasciandolo al mondo putrefatto in cui il ragazzo avrebbe dovuto continuare a vivere. Si voltò e a piccoli passi cominciò a camminare verso la porta del toril, verso le stalle da cui era uscito. Forse sognava i campi in cui per anni aveva vissuto, forse sognava i suoi fratelli a cui era stato sottratto, forse cercava per l’ultima volta l’odore dell’allevamento di Salamanca da cui era stato allontanato. Sulla magnifica, antica plaza di Barcarrota scese un silenzio di tomba, nessuno fiatò, nessuno ebbe più il coraggio di mormorare nulla. L’animale si avvicinava sempre più stanco a chiqueros e quando fu davanti alla porta aprì un po’ di più la mandibola, la lingua scivolò fuori con un fiotto di sangue e alzando gli occhi oltre all’altezza da cui si lasciava cadere, il muso alto sulla porta, si accasciò. Il ragazzo restava al centro dell’arena immobile e io sono sicuro di averlo visto piangere.

Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Vado ai tori perché nulla, nulla, nulla in questo mondo di nani e ballerine è grande e duro e vero come i tori.



Matteo Nucci (seconda parte - fine)


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)



martedì 16 novembre 2010

Perché andiamo a vedere la corrida (prima parte)



Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come l’odore dei sigari misto all’odore dei cavalli quando si arriva alla plaza. Nulla è come lo strepito festante che accompagna l’inizio di una tarde. I venditori di noccioline e bruscolini gridano mentre uomini e donne distribuiscono il programma e offrono ventagli di carta o visiere per ripararsi dal sole e intanto gridano i venditori di sigari e gridano le venditrici di leccornie dai colori artefatti e gridano tutti i venditori di cuscini del mondo. Ci sono quelli che hanno cucito i cuscini in casa, forse con una macchina arrangiata, e le cuciture sono storte ma nessuno potrebbe vederle, loro sbattono i cuscini l’uno contro l’altro e il rumore è un rumore sordo che sembra diventare una specie di eco: almohadillas, almohadillas, almohadillas. Le signore si avvicinano protette da occhiali scuri e i ragazzi dicono il prezzo e le signore cercano di contrattare: il cuscino potrebbero comprarlo anche dentro la plaza ma suvvia, ragazzi, fateci un piccolo sconto, ci piace il cuscino giallo e rosso, ma tre euro non sono un po’ troppi?

Era la feria de abril, credo, perché doveva aver piovuto e adesso l’aria era fresca e il sole leggero e la viuzza che sale alla Maestranza da calle Adriano, lì accanto al negozio di cappelli e souvenir, erano scalini cosparsi dal terriccio dell’arena, il terriccio che viene fuori dall’entrata del patio de caballos e l’odore era fortissimo e noi cominciammo a mimare naturales e derechazos, finalmente si ricominciava, finalmente si tornava ai tori, la stagione per noi riapriva davvero. Avevamo mangiato gamberetti alla Bodega San José, avevamo bevuto bicchieri di vino bianco eppoi qualcuno ordinò un piattino di formaggio e del vino tinto, così cominciammo a bere altro e un vecchio che era lì vide i biglietti che avevamo comprato dal reventa perché la corrida era di quelle buone e era già tutto esaurito fin dal mattino e ci prese in giro, ci disse che italiani così non ne aveva mai visti e volle offrirci da bere e disse che prima della corrida, prima di una corrida come quella, non si poteva bere altro che whisky e cola e allora ordinò per noi, ci offrì sigarette bianche da un pacchetto di Ducados e ci raccontò di quando aveva rischiato di far fallire il suo matrimonio per colpa di Curro Romero. Curro Romero, lo conoscete? C’è la sua statua lì davanti alla Maestranza. È ancora vivo, ma è già una statua, è un mito, è uno stato d’animo, una categoria dello spirito.

Ci sapeva fare, con i racconti, il vecchio. Disse che, quel mattino di trent’anni prima, la corrida che si aspettava era critica. Per due tardes Curro Romero si era quasi rifiutato di toreare, lì, nella sua Siviglia, la sua patria, il suo mondo. Erano state due umiliazioni per tutti i suoi sostenitori, i cosiddetti curristi, mentre gli anticurristi gioivano e dicevano: vedete? Questo è il vostro torero, questo è l’uomo, ossia il mezzo uomo che senza i suoi mezzi tori non vive, non esiste, non torea. Noi eravamo affranti e per giorni non riuscimmo a darci pace. Quando Curro Romero faceva così per noi era una tragedia, era come se tutto stesse per crollare, come se il mondo stesse per finire, come se la vita non avesse più senso. Vi potete immaginare mia moglie? Vivevamo a Triana, dove sono nato, e in quei giorni non ero stato più un uomo, non ero più me stesso, capite? Dico con mia moglie, eh! Semplicemente c’ero e non c’ero e faticavo a essere quel che posso essere e non riuscivo a non pensare a Curro e alla sua tragedia, la nostra tragedia, fino a quando il sonno mi portava con sé. Poi si venne a sapere della sostituzione. Un torero, non mi ricordo più chi, fu ferito e per sostituirlo fu chiamato Curro Romero. Avevamo un’altra possibilità, l’ultima qui a Siviglia, per rivederlo davvero e temevamo tutti il disastro definitivo. Mia moglie seppe e mi disse: stavolta non ci sono santi, o me o Curro Romero. Se domenica vai ai tori, a casa non mi trovi più. Le feci la promessa. Per tutta la settimana pensai a come fare per ingannarla. I biglietti li avevo comprati subito e i miei amici mi volevano con loro fin dal mattino ma dissi che ci saremmo visti direttamente ai nostri posti del tendido. Non avevo un piano, nessun piano.

Arrivò la domenica, era un giorno bellissimo e il sole incendiava calle Pureza e io e mia moglie uscimmo presto e passeggiammo in giro per la città e, di ritorno, quando era ormai l’una, passammo dalla chiesa di Santa Ana e ci fermammo al bar e le proposi di mangiare caracoles ché era arrivato il periodo delle lumache e lì al bar di Santa Ana le lumache sono le migliori di Siviglia. Ci mettemmo al sole e mangiammo eppoi prendemmo qualcos’altro, non ricordo cosa, bevemmo, mangiammo altro ancora e bevemmo eppoi prendemmo un caffè e un brandy. Pensavo che si sarebbe ubriacata e si sarebbe addormentata ma mi sentivo talmente felice e talmente ubriaco io stesso che i miei piani improvvisi non valevano più nulla e continuavo a bere brandy, almeno quello riuscivo a farlo, non prendevo whisky e cola pensando che sennò mia moglie avrebbe capito tutto, continuavo a ordinare brandy e già immaginavo la sera e mi dicevo che niente sarebbe stato bello come la corrida e quasi avrei voluto gridarlo a quella donna che amavo così tanto e condividere con lei quella felicità. Tornammo a casa abbracciati, i ragazzini giocavano a pallone su calle Betis e noi guardavamo il Guadalquivir e ci baciavamo e io guardavo la plaza e mandavo i miei baci anche alla Maestranza e vedevo il colore ocra e bianco delle sue mura e già sognavo la cappa di Curro Romero. I ragazzini ridevano mentre ci baciavamo e cercavano di guardare le mie mani e il suo corpo, mia moglie era bellissima, io la stringevo, loro guardavano, lei lo sapeva e le faceva piacere, finché non la presi per mano e corremmo a casa e a casa? Be’ non vi racconto nulla di questo, potete immaginarvelo, fu una cosa pazzesca, talmente pazzesca che entrambi, nella felicità, nel caldo, nell’ubriachezza e nel piacere, sotto la pala che muoveva aria dal vecchio soffitto, crollammo addormentati. Mi svegliò lei alle cinque e mezza, col caffè, dicendomi “amore, amore, svegliati” e io la respingevo e lei insisteva “amore, amore svegliati, sennò ti perdi la corrida”. Balzai su, volevo piangere di felicità: capite cosa significa avere una moglie? Una moglie vera? Lei sapeva tutto. Aveva capito ogni cosa. E io corsi via. E sapete come andò? Potete immaginarvelo. Curro Romero entrò nell’arena tra fischi e ovazioni eppoi appena aprì la cappa con il suo primo toro fu subito silenzio, fu silenzio assoluto, e tutti capirono, anche gli anticurristi, che la magia era tornata. Fu una tarde epica, qualcosa di incomparabile con qualunque altra cosa mi sia capitata nella vita. Dunque ora andate, andate, bevete con me, ecco, brindate, ci vediamo dopo magari, oggi sarà una bella corrida, ma io non vengo, no, io non vengo, io non vengo più.

Vado ai tori perché nulla è come i tori.

Nulla è come lo scintillio dei lustrini sul traje de luces quando comincia a scendere la sera. Nulla è come lo strambo suono del clarino a scandire gli atti della tragedia. Il toro entra in pista e pare una furia spaesata. “Ha guardato a destra, non può essere manso” dice un tipo accendendosi l’ennesima sigaretta e il suo amico gli fa “superstizioni, galoppa, non vedi?” Gli zoccoli strusciano sull’arena, si sentirebbe anche il fruscio di un pezzo di carta strappato tanto è il silenzio che è sceso sulla piccola plaza, nessuno dice nulla, perché tutti studiano l’animale e si sentono solo i rumori delle cappe che i subalterni del matador tirano fuori dal burladero incitando il toro a correre in circolo, poi forse si sente anche il passo del Maestro e di sicuro il rumore della cappa che si apre e diventa un lenzuolo davanti al corpo del torero, il lenzuolo che Veronica si dice abbia offerto a Cristo mentre camminava sulla strada del Golgota. Il toro osserva la cappa come forse Cristo, sanguinante, osservò il panno e ci affondò il viso in cerca dell’ultima freschezza. Il toro corre verso il panno, getta le corna per colpire la vita che crede di aver visto con i suoi occhi di miope, prima un corno poi l’altro, uno scatto repentino, ma non trova che freschezza, la freschezza dell’inganno che scivola via mentre il corpo dell’uomo, la vita che il toro non vede, si muove lentissima in un volteggiare sognante. C’è un’anima che percorre gli spalti e, comandata da una specie di dio, fa sospirare un olé lunghissimo, estasiato.

Era l’anno che guidammo da Albacete a Murcia lungo la statale che corre parallela all’autostrada. Non so più chi l’avesse proposto ma c’era tempo, nessuno ci correva appresso: perché allora non prendere la strada più bella? Perché non viaggiare tra i campi coltivati, sulla strada dritta che si perde in saliscendi interminabili, il verde percorso da sprazzi di vento che sembravano disegnare striature metalliche sulle colline intorno, eppoi i campi arati, le zolle rivoltate e quel colore rossastro che pareva quasi sanguinante? Ci fermammo a Tobarra perché sulla mappa accanto al paesino c’era una specie di ferro di cavallo, e quel ferro di cavallo sulla cartina stradale indicava la plaza de toros e volevamo vedere la plaza de toros di Tobarra, era sabato, non era neppure l’una, di questo sono sicuro, perché cominciavamo ad avere fame e quando arrivammo per un attimo ci parve un sogno l’odore che usciva dalla porta accanto alla taquilla. Non ci aspettavamo certo di poterla trovare aperta e si sentiva un profumo di cucina esaltante e non era affatto un nostro delirio. Ci affacciammo. Qualcuno gridò qualcosa, chiedemmo chi ci fosse in giro e intanto guardavamo le rifiniture perfettamente dipinte di rosso e il legno elegante e la sabbia compatta sotto quella luce giallognola che filtra attraverso i materiali bianchi che vengono usati quando si decide di coprire certe plazas de toros e salvare gli spettacoli dalle possibili piogge. Certo non sapevamo che la plaza di Tobarra fosse coperta, ma in quel momento ci importava poco. Arrivò un omone con un lungo mestolo di legno in mano, ci chiese con fare burbero cosa volessimo e, quando capì che volevamo visitare la plaza, disse: andate dove volete. Ma il profumo era qualcosa che avrebbe fatto resuscitare i morti e noi percorremmo gli spazi destinati all’orchestra distratti, visitammo il palco presidenziale distratti, scendemmo i gradoni del tendido fino al callejon dove stazionavano i toreri e la loro cuadrilla sempre distratti e finalmente andammo verso il toril dove su un enorme fornello portatile collegato a una bombola stava la grande pentola metallica in cui sfrigolavano pezzi di carni, pollame e altro galleggianti nell’olio in cui l’omone versava scatole di pelati. Ci spiegò come avrebbe fatto la paella, ci presentò il fratello, il guardiano della plaza, e ci indicò la figlia e la moglie e ci disse che di sabato mangiavano lì e che le corride erano programmate a febbraio e agosto e che a febbraio spesso pioveva, per questo avevano deciso di coprire la plaza, dieci anni prima. Ci disse di come, durante l’anno, curavano ogni dettaglio di quel monumento al toro e ai toreri, ci raccontò della cura maniacale con cui il fratello viveva per la plaza e ci offrì birre e brindammo, bevemmo, raccontò di toreri e tori, e infine ci invitò a venire il prossimo sabato a mangiare con loro, avrebbe preparato una paella più consistente, stavolta non erano in programma le nostre quattro bocche ma ci avrebbe volentieri fatto assaggiare anche oggi, solo che per darci davvero da mangiare avrebbe dovuto saperlo con il giusto anticipo. Non la finiva di scusarsi, era davvero dispiaciuto. Intanto lasciò scivolare nel pentolone calamari, vongole, cozze e gamberi e l’odore nel coso taurino di Tobarra fu tale che cominciavamo a essere impazienti e bevemmo ancora e brindammo e salutammo, saremmo tornati, saremmo tornati di sicuro, ma non il sabato dopo, il sabato dopo dovevamo già essere di ritorno in Italia, forse a febbraio, forse a febbraio per le prime corride dell’anno, salutammo e augurammo buon pranzo, vennero tutti a dirci ciao sulla grande porta e ci spinsero a un ristorante di Hellin sulla statale pochi chilometri dopo Tobarra e ci fermammo lì, si chiamava El Albero e il motto era “Aperitivos y comida con trapio”, il trapio, l’eleganza del toro.

Mangiammo a El Albero fra manifesti di corride, tori attaccati alle pareti, traje de luces donati da celebri matadores, mangiammo nel locale dell’aficiòn del luogo e mangiammo commuovendoci di fronte a bistecche alte tre dita, scottate sulla brace e ricoperte da scaglie di sale grosso, bistecche che facevano venire i brividi, carne de gallina disse il proprietario ridendo, la stessa carne de gallina che può venire assistendo a una faena memorabile, un toro straordinario, ma stavolta la carne de gallina, la pelle d’oca, era per la più buona bistecca che mangiavamo da secoli e bevemmo vino rosso, un Cune, La Rioja, e quasi piangevamo quando uscimmo nell’aria calda del pomeriggio, mancavano settanta chilometri a Murcia e alle sei ci aspettavano i tori.


Matteo Nucci (prima parte)


(foto Ronda - per inviare il proprio testo: alle5dellasera@tiscali.it)